Paese che vai...
"Negli anni Ottanta sfogliavo con ammirazione i dépliants delle cantine francesi dove non mancava mai una cartina dell’Europa e vi si distinguevano in sequenza la Francia, la regione, l’ubicazione
della cantina e, quindi, le ricchezze paesaggistiche e artistiche del circondario, i musei, la flora e la fauna locali, i castelli. Quasi sempre erano presenti indicazioni di fiere, feste, sentieri, vecchie case con vecchi torchi e vecchi attrezzi agricoli e altre vecchie curiosità. Seguiva l’elenco delle uve storiche (in Francia esistono solo uve storiche) coltivate in loco, le immancabili foto: di famiglia con avi, di vendemmie e di momenti conviviali.
Alla fine, solo alla fine, c’era l’elenco delle etichette con i contatti aziendali. Negli stessi anni sugli opuscoli italiani imperavano gli stemmi nobiliari, le foto degli impianti d’imbottigliamento e le
(prime) barricaie. Mai (quasi mai) erano presenti immagini di vigneti, di paesaggi o riferimenti al contesto storico nel quale la cantina era inserita. Dire che, finalmente, anche noi ci siamo arrivati
è forse prematuro ma il cammino è ormai intrapreso:
Bisogna riconoscere che l’Italia non è la Francia ed è certamente più facile per un produttore di Champagne (o di Borgogna o di Bordeaux) presentarsi al mercato. C’è solo una voce in etichetta
che lo differenzia da tutti gli altri: il suo nome. Nel nostro paese non è così: salvo rare e lodevoli eccezioni, i produttori devono fare i conti con un mercato che non conosce le innumerevoli espressioni enoiche italiane.
È questa un’oggettiva debolezza del vino italiano che potrà diventare una grande forza solo se si riuscirà a trasmettere i concetti di rappresentatività, di unicità e di storia, intenzione certo
non facile da realizzare. Oggi, ad esempio, grazie alla lungimiranza di Andrea Ferraioli e Marisa Cuomo, il paese di Furore è più famoso di Amalfi, Ravello e Positano. Sarebbe come se Dolo fosse più conosciuto di Venezia e Padova. E chi conosceva Monleale prima di Walter Massa?, e Morgex prima di Gianluca Telloli e Mauro Jaccod?, e Revò prima di Augusto Zadra?, e Sorbara prima di Paltrinieri?, e Tufo prima di Ferrara?, e Lucera prima di Petrilli?, e Gattinara prima di Travaglini?
L’elenco è senza fine ma quello che si vuole dire è che queste persone hanno saputo legare ai vini le storie e le tradizioni dei loro territori. E la gente fa altrettanto: li associa. Il vino così presentato
è contestualizzato, termine che, in qualche modo, ha un significato opposto a personalizzato o a brand aziendale. Ad esempio qualcuno di noi pensa che questi nomi siano (anche) di paesi?:
Dogliani, Lugana, Isera, Santa Magdalena, Soave, Custoza, Bardolino, Carmignano, Montalcino, Bolgheri, Barolo, Matelica, Morro d’Alba, Frascati, Taurasi, Cirò, ecc.
La riconoscibilità commerciale di un territorio, affermatasi con il vino, funge altresì da traino per altre produzioni agricole, zootecniche e artigianali, riguardanti frutta, verdura, formaggi, salumi, miele, dolci e quant’altro. Il vino presentato nel e con il suo territorio ne diventa l’ambasciatore quale espressione di un’eccellenza che rimane legata al contesto produttivo con le sue mille sfaccettature.
Diventa anche un formidabile strumento di promozione turistica quando contiene in etichetta il nome della località: Rossese di Dolceacqua, Sylvaner Valle Isarco, Morellino di Scansano, Carignano del Sulcis, ecc.
E così, una volta che il luogo è riconosciuto dal mercato, è più facile anche per gli altri produttori trovare uno spazio d’azione in quel solco tracciato. Questo modo di vedere il mondo del vino
travalica naturalmente i confini dell’Italia e comprende le coste del Mediterraneo e l’Europa tutta: da Lisbona a Odessa. Il vino è nato qui, in questi luoghi dove, con il grano e l’olio di oliva, è cresciuto (nel bene e nel male) un particolare modo di concepire la vita e i rapporti umani."
━ Gianpaolo Girardi
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